Nell’immaginario collettivo, il feticista appare come figura ambigua, marginale o eccentrica, spesso confinata nei territori del “diverso” o del patologico. Eppure, dietro il velo della caricatura sociale, si cela un universo simbolico complesso, in cui l’oggetto feticistico non è solo veicolo di eccitazione, ma nodo affettivo, memoria incarnata, rappresentazione di una mancanza originaria. Comprendere il feticismo significa allora entrare nel cuore pulsante del desiderio umano, là dove la psiche trasforma l’assenza in presenza, e il trauma in forma.
Il feticista non è il portatore di una deviazione, bensì il protagonista di un racconto intimo, spesso non detto, dove l’oggetto – scarpa, indumento, materiale, parte del corpo – assume un valore transizionale e profondamente relazionale. Non si tratta solo di erotismo: si tratta di sopravvivenza psichica, di organizzazione del mondo interno, di difese che prendono forma plastica. In questo senso, il feticismo non è il luogo dell’eccesso, ma quello della compensazione, della protezione, talvolta della ripetizione.
Freud ha descritto il feticismo come una “formazione di compromesso” legata alla rimozione della castrazione. Ma già in questa definizione, la questione non è tanto sessuale quanto simbolica: il feticcio nasce là dove l’angoscia diventa troppo, e serve un oggetto per contenerla. Ogni feticista allora, prima che portatore di un comportamento, è portatore di una struttura affettiva specifica, spesso ancorata a esperienze precoci di mancanza, ambivalenza o trauma.
Il nostro intento, con questo articolo, è restituire profondità clinica e dignità psichica a un fenomeno troppo spesso ridotto a etichetta o diagnosi. Racconteremo il feticismo non come anomalia, ma come linguaggio dell’inconscio, come traccia di un Sé che tenta, attraverso l’oggetto, di dire l’indicibile. E lo faremo esplorando la storia, la clinica, la relazione, le difese, la sessualità, la coppia, il disturbo e infine la cura. Perché il feticismo non è mai solo ciò che si vede: è, piuttosto, ciò che vuole essere visto.
Introduzione simbolica: il feticismo tra storia, desiderio e inconscio
Il feticismo non è soltanto una forma di desiderio sessuale deviante, come spesso è stato etichettato da una certa cultura moralistica, ma un complesso simbolico radicato nei territori più profondi dell’inconscio. Il termine stesso, “feticcio”, proviene dal portoghese feitiço, derivato dal latino facticius, ovvero “artefatto”: già qui risuona il legame tra creazione, illusione e bisogno di contenere l’angoscia. L’oggetto feticistico si pone fin da subito come qualcosa di “fatto”, costruito dall’apparato psichico per rispondere a un’assenza, un vuoto, una mancanza originaria.
Nel corso della storia culturale, il feticismo ha attraversato differenti significati: da oggetto magico nella religione animista, a simbolo di desiderio sessuale nell’Occidente moderno. Ma in entrambi i casi, l’oggetto feticcio non è mai neutro: è un ponte tra il visibile e l’invisibile, tra il corpo e la psiche, tra il desiderio e la perdita. In psicoanalisi, esso diviene emblema della dialettica tra castrazione e difesa, tra l’angoscia di separazione e il bisogno di protezione affettiva. Il feticismo, in questo senso, non è semplicemente una perversione, ma una narrazione inconscia del trauma, un tentativo di dare forma simbolica a ciò che è stato vissuto come insopportabile.
Questo articolo si propone di esplorare il feticismo nella sua ricchezza simbolica e clinica, restituendogli una dignità narrativa e psichica. Indagheremo la figura del feticista non come soggetto deviato, ma come portatore di un codice emotivo complesso, spesso incompreso. Dallo sguardo antropologico a quello psicodinamico, passando per la clinica delle relazioni oggettuali, ci muoveremo lungo un percorso che intreccia desiderio, oggetto e identità. Il feticismo, in questa prospettiva, diventa non solo una manifestazione sessuale, ma una mappa simbolica dell’identità affettiva.
Dal feticcio al feticismo: il passaggio dalla magia all’erotismo
Il feticcio nasce nella storia dell’umanità come oggetto caricato di potere, talismano protettivo, punto di contatto con il divino o con le forze invisibili. Nelle culture animiste, il feticcio è l’oggetto che trattiene lo spirito, che garantisce protezione, fertilità, sicurezza. È un oggetto sacro e intimo. La sua funzione non è estetica, ma relazionale: il feticcio parla, custodisce, protegge, compensa. Quando questo stesso oggetto compare nel mondo psichico come feticcio erotico, le sue funzioni simboliche non cambiano, ma si trasformano. Non è più un dio che abita l’oggetto, ma un’emozione, un’assenza, un desiderio bloccato.
Il passaggio dal feticcio religioso al feticismo sessuale avviene nel momento in cui l’oggetto non viene più venerato per ciò che rappresenta, ma per ciò che sostituisce. L’oggetto diventa surrogato: di una persona, di un’emozione, di una parte perduta del Sé. Il feticismo, allora, assume una duplice natura: è insieme rifugio e prigione, consolazione e fissazione. L’oggetto erotizzato è portatore di una tensione irrisolta tra il bisogno di relazione e la paura della fusione. È un compromesso psichico.
In questa evoluzione, il feticismo conserva il suo nucleo originario: la capacità di dare forma all’informe, di contenere l’angoscia attraverso un oggetto. Ma nello spazio della sessualità, questa funzione si complica: il corpo diventa luogo del simbolo, il desiderio diventa narrazione di una mancanza. Il feticista, in tal senso, non desidera solo un oggetto, ma desidera attraverso quell’oggetto una relazione con un Altro spesso assente, temuto o idealizzato. È qui che inizia il lavoro clinico: comprendere l’oggetto non come cosa, ma come significante.
Freud, la castrazione e il simbolo dell’oggetto mancante
Freud introduce il concetto di feticismo nel 1927 in un breve scritto che segna una svolta concettuale: Il feticismo. Per il padre della psicoanalisi, il feticcio è il sostituto del pene femminile che il bambino avrebbe voluto vedere e che invece ha dovuto negare, per non essere sopraffatto dall’angoscia della castrazione. Il feticismo nasce così come una soluzione psichica a un conflitto insopportabile: la scoperta che la madre è priva del pene implica la possibilità che anche il soggetto possa perderlo. Da qui, la necessità di creare un oggetto che neghi quella realtà traumatica.
Ma ciò che Freud coglie, al di là del dato sessuale, è la funzione simbolica dell’oggetto: esso rappresenta ciò che è stato rimosso, ciò che non può essere detto o accettato. Il feticcio non è solo un oggetto erotico, è un luogo di condensazione simbolica, di compromesso tra pulsione e difesa. È insieme memoria e rimozione. Freud lo definisce come “l’ultimo bastione contro l’angoscia”, un oggetto che permette di evitare il crollo psichico.
Nella clinica contemporanea, il concetto freudiano si è arricchito di prospettive relazionali e oggettuali: il feticismo non è soltanto una fissazione libidica, ma un dispositivo affettivo. Il feticista non è un perverso, ma un soggetto che ha trovato nell’oggetto un contenitore per un vissuto traumatico. L’oggetto feticistico diventa simbolo dell’assenza primaria, del lutto non elaborato, dell’amore interrotto. E, soprattutto, una difesa dalla frattura del Sé.
Freud ci offre quindi una chiave fondamentale: il feticcio non è patologico in sé, ma può diventarlo se cristallizza il desiderio e impedisce l’incontro con l’Altro. Comprendere questo snodo significa leggere il feticismo non solo come perversione, ma come forma simbolica della sopravvivenza psichica.
Chi è il feticista? Profilo clinico e struttura del desiderio
Nel cuore delle dinamiche feticistiche si delinea una figura psichica complessa: il feticista non è mai riducibile a un comportamento, a una preferenza o a una perversione isolata. È piuttosto l’emblema di una tensione profonda tra desiderio e difesa, tra mancanza e costruzione di senso. Nella clinica, il feticista non si presenta solo attraverso l’oggetto che investe, ma tramite la forma con cui lo incorpora nella propria economia pulsionale, trasformandolo in nodo identitario, rituale affettivo e segreto organizzatore del Sé.
L’identità del feticista è strutturata attorno a una configurazione del desiderio parziale, cioè centrata su un frammento dell’altro, un dettaglio che si carica di valore affettivo ed erotico, spesso inaccessibile al soggetto stesso sul piano cosciente. Il suo legame con l’oggetto è ambivalente: investito di sacralità e insieme utilizzato come scudo contro l’angoscia relazionale. In molti casi, l’oggetto diviene uno specchio narcisistico, una zona franca tra Sé e Altro dove il trauma può essere negato, trasformato o ritualizzato.
L’analisi delle narrazioni cliniche mostra come il feticismo si manifesti già nella preadolescenza, spesso dopo esperienze precoci di frustrazione, perdita o ipercontrollo genitoriale. Il feticista non cerca un piacere generico: egli cerca una specifica forma di contenimento, una risposta simbolica a un buco della trama affettiva primaria. Non è l’oggetto in sé a interessarlo, ma il potere che quell’oggetto ha di evocare, contenere o trasformare qualcosa di indicibile.
In questo quadro, il feticista si muove tra bisogno e rappresentazione, tra compulsione e linguaggio, tra trauma e significazione. La sua identità non è deviante, ma profondamente umana: è un modo creativo – seppur talvolta rigido o doloroso – di far fronte al vuoto, alla mancanza, al desiderio dell’Altro che non si può contenere senza perdere se stessi.
Definizione psicosessuale del feticista: attrazione e ritualità
La psicosessualità del feticista non segue la linearità della risposta sessuale convenzionale. Piuttosto, si struttura come una topografia dell’attesa e del dettaglio, dove l’oggetto feticistico diventa centro di gravità dell’eccitazione. L’attrazione non è solo erotica, ma profondamente ritualizzata: ciò che accende il desiderio non è l’altro nella sua interezza, ma un tratto specifico, ripetibile, controllabile, spesso legato a uno schema inconscio di significazione.
Nel rituale feticista, l’oggetto è preparato, osservato, annusato, posizionato secondo regole rigide ma affettivamente cariche. Il gesto si fa liturgia, e ogni passaggio sembra contenere un messaggio codificato rivolto al Sé profondo. L’intimità feticista non si svolge tanto tra due corpi, ma tra un soggetto e l’oggetto simbolico che media la presenza dell’altro. In questo senso, il rituale è anche un modo per tenere a distanza l’angoscia dell’incontro diretto, trasformando il desiderio in rappresentazione.
Clinicamente, ciò che emerge è una regolazione dell’affettività tramite il corpo simbolico dell’oggetto. La risposta sessuale è spesso legata alla ripetizione di gesti precisi, come se il piacere fosse possibile solo entro uno schema rigido. Questo schema, tuttavia, non va letto come un difetto, bensì come una struttura psichica protettiva, nata per elaborare emozioni primarie troppo intense o caotiche.
Attrazione e ritualità, per il feticista, non sono separabili. Ogni eccitazione è una narrazione implicita, una modalità di pensare il corpo e il legame attraverso oggetti che “parlano” un linguaggio psichico non verbale. Il feticismo, in questa luce, è una grammatica del desiderio, una messa in scena del bisogno di contatto che non può passare dall’Altro senza prima passare da un oggetto che filtra, protegge, contiene.
Psicodinamica dell’oggetto: attaccamento e difese inconsce
Nella visione psicodinamica, il feticismo rappresenta una configurazione difensiva complessa, in cui l’oggetto feticistico assume funzioni multiple: contenitore, protesi, specchio e simbolo. L’oggetto non è mai neutro: è un polo relazionale interno che il soggetto costruisce per gestire il legame con le emozioni primarie, spesso troppo invasive o confuse per essere elaborate senza mediazioni.
L’attaccamento al feticcio è, in molti casi, un attaccamento disorganizzato: si ama ciò che protegge dalla minaccia, ma anche ciò che incarna quella minaccia trasformata in forma tollerabile. Il feticista, in questa prospettiva, usa l’oggetto come difesa contro l’angoscia di annichilimento, ma anche come ponte verso l’esperienza relazionale. Non è la sessualità in sé a essere deviata, ma la modalità con cui il soggetto può esperirla senza perdersi.
Le difese inconsce in gioco sono frequentemente la scissione, che separa affetto e corpo; la negazione, che nega la mancanza dell’oggetto primario; e l’idealizzazione, che investe l’oggetto feticistico di qualità salvifiche. In terapia, queste dinamiche si rivelano nella difficoltà a tollerare la separazione, nella paura del rifiuto e nella tendenza a trasformare l’altro in oggetto di controllo.
Dal punto di vista clinico, è essenziale cogliere non solo la funzione erotica dell’oggetto, ma anche la sua funzione difensiva e relazionale. Il feticismo, qui, non appare come un disturbo, ma come un dispositivo psichico complesso, che merita di essere ascoltato come un messaggio cifrato proveniente dalle prime esperienze di attaccamento.
Il feticismo come sistema di difesa
Il feticismo, nel suo nucleo più profondo, può essere inteso come un vero e proprio sistema di difesa psichica. Non si tratta soltanto di una modalità alternativa di vivere il desiderio, ma di una risposta strutturata a esperienze primarie che il soggetto non ha potuto integrare in modo simbolico. L’oggetto feticistico non è un semplice sostituto erotico: è una costruzione psichica che assolve a una funzione protettiva, stabilizzante, talvolta salvifica.
Nei percorsi clinici, si osserva come molti pazienti descrivano il feticcio come una presenza regolatrice, una sorta di “coperta di sicurezza” per il loro mondo interno. In queste dinamiche, il feticismo agisce non solo sull’asse libidico, ma anche su quello narcisistico, dell’identità e dell’autoconservazione. L’oggetto feticistico, infatti, permette al soggetto di tollerare il contatto con l’altro, mediando la tensione tra bisogno e paura, tra fusione e separazione.
Sul piano psicodinamico, il feticismo consente di evitare l’angoscia di annichilimento, trasformando ciò che è traumatico o non elaborabile in un’immagine controllabile, manipolabile, ripetibile. L’oggetto, in questa prospettiva, agisce come una barriera simbolica contro l’intrusività dell’altro o la dissoluzione del Sé. In questo senso, il rituale feticista non è un capriccio, ma una forma di stabilizzazione identitaria, una difesa raffinata contro l’implosione psichica.
Accogliere questa lettura significa spostarsi da una visione patologizzante a una comprensione profondamente relazionale. Il feticismo non è l’errore, ma il tentativo di rispondere creativamente a un vuoto, a una rottura, a un desiderio che non ha trovato risposta. La difesa, qui, diventa linguaggio. E nel linguaggio difensivo, il clinico può scorgere la mappa di un dolore antico, che ha trovato nella materia dell’oggetto un rifugio simbolico, un modo per continuare a desiderare senza essere sopraffatti.
Scissione, idealizzazione e negazione: la funzione dell’oggetto feticistico
L’oggetto feticistico non è un oggetto qualunque. Nella psiche del feticista, esso si carica di funzioni psichiche complesse, spesso inconsce: funge da barriera, da simbolo, da contenitore affettivo. Tre meccanismi di difesa dominano la scena interna: scissione, idealizzazione e negazione. Attraverso di essi, l’oggetto assume uno status speciale, quasi magico, diventando irrinunciabile.
La scissione separa l’esperienza in poli inconciliabili: il buono e il cattivo, il sicuro e il minaccioso, l’eccitante e il terrificante. L’oggetto feticistico viene collocato nel polo buono, espulso da ogni ambivalenza. Esso è puro, incontaminato, capace di restituire al soggetto un senso di coerenza e identità. L’idealizzazione lo eleva a totem personale, un talismano in grado di proteggere e contenere. Infine, la negazione opera in silenzio: nega la perdita originaria, la castrazione simbolica, l’assenza dell’oggetto primario, attribuendo al feticcio il potere di rendere eterno ciò che è stato perduto.
Questi meccanismi non agiscono isolatamente, ma in combinazioni dinamiche. Il feticismo diventa così una scenografia difensiva, in cui il soggetto mette in atto una drammaturgia inconscia: non per fingere, ma per sopravvivere. L’oggetto viene così investito di un’energia libidica e protettiva che lo rende centrale nella vita psichica.
In psicoterapia, queste dinamiche emergono attraverso il transfert: il terapeuta può essere vissuto come minaccioso se tenta di “togliere” l’oggetto, oppure come depositario di una funzione contenitiva analoga a quella svolta dal feticcio. È allora che si può avviare una trasformazione simbolica, nella quale il paziente impara a tollerare la perdita, a reintegrare la parte negata, e a riconoscere il bisogno dietro la difesa.
Sublimazione e proiezione: il feticismo come trasformazione simbolica
Il feticismo non è solo difesa, ma anche trasformazione psichica. In alcune strutture, esso può assumere una funzione sublimatoria, trasformando contenuti dolorosi in forme simboliche tollerabili. L’oggetto non è più solo rifugio: diventa veicolo di creatività psichica, ponte tra la realtà interna e quella esterna.
La sublimazione, in questo contesto, opera spostando le energie pulsionali da un registro primario a uno rappresentativo. Il feticista, spesso inconsapevolmente, elegge l’oggetto a simbolo artistico, estetico, narrativo. Si pensi all’uso del dettaglio in alcune pratiche fotografiche, o alla ritualizzazione dell’abbigliamento, del tessuto, della pelle: ogni elemento può assumere un valore poetico, un’estetica dell’invisibile. Il desiderio non viene negato, ma trasfigurato in una forma che protegge e svela insieme.
Accanto alla sublimazione, opera spesso la proiezione: il soggetto attribuisce all’oggetto le proprie angosce o desideri rimossi, creando una relazione immaginaria che consente di gestire l’irruzione del non pensabile. In questo senso, il feticismo diventa anche un luogo di relazione con l’inconscio, un palcoscenico dove ciò che non può essere detto prende forma.
Dal punto di vista clinico, riconoscere queste funzioni è fondamentale. Un feticismo vissuto in modo rigido e compulsivo può nascondere un conflitto non elaborato, ma un feticismo vissuto in modo creativo può rivelare una funzione psichica evolutiva. Il lavoro terapeutico, allora, non consiste nel “rimuovere” il feticismo, ma nel trasformarlo in linguaggio, nel restituirgli dignità simbolica, spazio narrativo, possibilità di senso.
Origini del feticismo: tra sviluppo infantile e trauma
Per comprendere le radici del feticismo, è necessario addentrarsi nei territori precoci dello sviluppo psichico, dove desiderio, perdita e rappresentazione dell’oggetto si intrecciano profondamente. L’oggetto feticistico, in questa prospettiva, non nasce ex novo, ma si struttura come risposta creativa o difensiva a esperienze relazionali primarie non simbolizzabili. L’assenza, la mancanza, il trauma o la discontinuità affettiva possono incidere nella costruzione dell’apparato psichico, lasciando “zone d’ombra” dove il feticcio prende forma come elemento sostitutivo.
Le teorie dell’attaccamento evidenziano come un caregiver inconsistente o emotivamente assente possa produrre nel bambino uno stato di angoscia non mentalizzabile, dove la mancanza di sintonizzazione affettiva si traduce in un bisogno di oggetti concreti che forniscano sicurezza. In questo contesto, il feticismo può sorgere come forma di auto-contenimento, in cui l’oggetto diventa il luogo in cui si iscrivono affetti e tensioni non elaborabili verbalmente.
Anche il trauma, soprattutto nelle sue forme precoci e cumulative, può originare un’organizzazione feticistica. Laddove il corpo infantile è stato invaso, ignorato o frainteso, il soggetto può sviluppare una modalità relazionale in cui l’oggetto inanimato sostituisce l’alterità umana, offrendo al tempo stesso controllo e gratificazione. Il feticcio nasce così come elemento di compensazione e di mediazione, proteggendo dall’angoscia della ripetizione traumatica.
Nella pratica clinica, queste dinamiche emergono spesso sotto forma di rituali, fissazioni o fantasie ricorrenti, il cui significato va compreso all’interno della storia soggettiva. Il feticismo non è mai riducibile al solo oggetto: è un nodo simbolico, una difesa elaborata, una forma attraverso cui il soggetto tenta di integrare l’integrabile, dare senso al non detto, e mantenere viva la possibilità di desiderare.
Psicologia dello sviluppo e attaccamento: la nascita del desiderio feticistico
Il desiderio feticistico non appare improvvisamente nella vita adulta: esso affonda le sue radici nella costellazione affettiva dello sviluppo infantile, in particolare nel modo in cui il soggetto ha potuto o meno sperimentare la continuità dell’oggetto. Secondo Winnicott, il bambino si sviluppa nella misura in cui può creare un’area intermedia tra Sé e mondo, popolata da oggetti transizionali. Quando questa zona è compromessa, il feticcio può divenire un sostituto rigido dell’oggetto transizionale perduto.
Il legame d’attaccamento gioca un ruolo cruciale. Nei modelli disorganizzati o evitanti, la relazione con la figura primaria è marcata da ambivalenza, paura o ritiro affettivo. In questi casi, l’oggetto feticistico può emergere come tentativo di costruire un ordine interno stabile, un modo per mantenere un contatto illusoriamente sicuro con l’altro, ma senza dover tollerare la complessità della relazione reale.
La sessualizzazione precoce di alcune esperienze, talvolta in contesti traumatici o disfunzionali, può inoltre cristallizzare alcuni dettagli corporei o oggettuali come depositari di significato erotico e protettivo. Il desiderio feticistico, in questo senso, è spesso il risultato di una sovrapposizione tra bisogno affettivo e attivazione erotica, in cui l’oggetto rappresenta una memoria incistata di una relazione originaria.
Queste dinamiche possono manifestarsi in età adulta sotto forma di rigidità relazionali, dipendenza da rituali o bisogno costante dell’oggetto. Il lavoro clinico richiede di esplorare queste radici con delicatezza, permettendo al paziente di ricostruire un ponte tra la propria storia e il significato simbolico del desiderio, senza colpevolizzazione né forzatura interpretativa.
Trauma e fissazione: quando l’oggetto diventa rifugio
Molti feticismi si formano attorno a esperienze traumatiche non elaborate, che lasciano il soggetto privo di strumenti simbolici per dare senso al vissuto. In questi casi, l’oggetto feticistico assume una funzione di contenimento e riparazione, diventando rifugio contro l’invasione psichica o l’integrazione dolorosa di eventi passati.
Il trauma precoce – sia esso relazionale, corporeo, sessuale o emotivo – può provocare una frattura nella continuità dell’Io, generando zone di fissazione libidica o affettiva. Il feticcio, in questo scenario, agisce come ripetizione difensiva: esso permette di rivivere l’esperienza in forma simbolica e controllabile, anziché esserne travolti. Ma tale ripetizione può diventare anche intrappolante, se priva di elaborazione trasformativa.
Dal punto di vista dinamico, la fissazione feticistica può essere interpretata come un tentativo di riparare l’oggetto primario danneggiato: si cerca di rendere bello, pulito, desiderabile ciò che nella realtà relazionale è stato contaminato o negato. Questo spiega perché molti soggetti attribuiscano al feticcio qualità estetiche perfette, quasi sacrali, proiezioni di un oggetto ideale che nella storia non si è potuto vivere.
La relazione terapeutica diventa allora un luogo in cui l’oggetto può essere reintegrato, non più come feticcio rigido, ma come rappresentazione dinamica del desiderio e della perdita. Il clinico ha il compito di accompagnare il paziente nel riconoscimento del trauma, nella sua nominazione e nella possibilità di narrazione simbolica. Solo così l’oggetto cessa di essere prigione, e può tornare a essere ponte.
Sessualità e gratificazione feticistica
All’interno della struttura del feticismo, la sessualità si presenta come una via privilegiata di espressione del desiderio, ma anche come un contenitore simbolico di tensioni affettive profonde. L’atto sessuale feticistico non è mai semplicemente meccanico: esso si articola attorno a un oggetto investito di significati affettivi, protettivi e spesso inconsci, che diventa il fulcro del piacere e della regolazione emotiva.
Il piacere feticistico si struttura lungo due assi: da un lato l’eccitazione sensoriale e simbolica legata all’oggetto (materiale, forma, odore, superficie), dall’altro la ritualità che accompagna l’interazione con esso. Non è raro che tale rituale abbia valenza riparativa o rassicurante, rappresentando per il soggetto uno spazio prevedibile, controllabile e protetto, dove le emozioni possono essere contenute.
A differenza della sessualità diadica, la sessualità feticistica ha un asse prevalentemente autoerotico, non nel senso di un isolamento narcisistico, ma come modalità protetta di relazione con sé e con la memoria dell’Altro. Il feticcio diventa così mediatore tra corpo e rappresentazione, tra ciò che è stato vissuto e ciò che si tenta di ricostruire simbolicamente.
Clinicamente, è essenziale comprendere che la gratificazione feticistica non è patologica in sé, ma va letta nel contesto della struttura psichica del soggetto. Il piacere derivante dall’oggetto feticistico può infatti rappresentare una forma di resilienza simbolica, un modo per mantenere vivo il desiderio anche laddove la relazione interpersonale è stata fonte di dolore o confusione.
Sessualità, rituale e oggetto: il ruolo del piacere simbolico
Nel feticismo, il rituale sessuale ha una funzione ben più complessa di quanto possa apparire. Non si tratta soltanto di una sequenza di gesti ripetuti: è un dispositivo simbolico, una coreografia inconscia che contiene, struttura e definisce l’accesso al piacere. L’oggetto feticistico non è mai neutro: è portatore di un codice segreto del desiderio, in cui il corpo, la memoria e l’affetto si fondono.
Il piacere che il feticista prova nel rapporto con l’oggetto non è meramente fisico. Si tratta di un piacere stratificato, che tocca livelli profondi dell’identità e dell’esperienza soggettiva. In esso si condensano vissuti precoci, emozioni negate, immagini idealizzate, ma anche strategie inconsce di regolazione dell’affettività e del Sé.
Molti pazienti riferiscono un senso di pace, centratura, o perfino “fusione” quando il rituale viene svolto nella sua interezza. Questo suggerisce che il piacere feticistico è spesso compensazione di una mancanza, rituale di reintegrazione, o anche tentativo di riattivare esperienze arcaiche non elaborate. Il soggetto non cerca solo eccitazione: cerca un significato, un contenimento, una forma.
La psicoterapia, in questi casi, può aiutare a decodificare il rituale, senza distruggerlo o medicalizzarlo. Il terapeuta, evitando l’interpretazione riduttiva, può accompagnare il paziente nella scoperta del significato soggettivo dell’oggetto e del piacere che da esso deriva, aprendo così uno spazio di libertà e trasformazione interna.
Gratificazione e dipendenza: quando l’oggetto sostituisce l’altro
Uno degli aspetti più delicati della clinica del feticismo è rappresentato dalla sovrapposizione tra gratificazione e dipendenza. Quando il rapporto con l’oggetto feticistico diventa esclusivo, rigido o totalizzante, può trasformarsi in una modalità di evitamento della relazione interpersonale, sostituendo l’altro reale con un oggetto simbolicamente controllabile.
Il feticcio, in questo caso, cessa di essere ponte e diventa barriera. L’equilibrio tra desiderio e sicurezza viene sbilanciato a favore del secondo, e il soggetto rinuncia, almeno parzialmente, alla complessità dell’incontro umano per rifugiarsi in un contatto prevedibile e unilaterale. La relazione con il feticcio può allora configurarsi come una relazione d’oggetto autosufficiente, che non necessita dell’altro, ma al tempo stesso lo esclude.
Da un punto di vista psicoanalitico, questo quadro può essere interpretato come una difesa contro la frammentazione, una forma di isolamento affettivo in cui la dipendenza dall’oggetto feticistico diventa centrale per il mantenimento della coesione psichica. Il soggetto si lega all’oggetto non per ciò che è, ma per ciò che rappresenta: un Altro addomesticato, privo di rischio e di dolore.
Il trattamento terapeutico in questi casi non mira alla rimozione del feticcio, ma alla riattivazione della funzione simbolica dell’oggetto, recuperando la possibilità di una relazione viva e non difensiva. È nel processo di mentalizzazione, nella narrazione del desiderio, che il feticista può iniziare a distinguere tra il bisogno di sicurezza e il desiderio di relazione autentica.
Il feticismo nella relazione di coppia
La presenza del feticismo all’interno della relazione di coppia apre uno scenario complesso e stratificato, dove desiderio, intimità e alterità si intrecciano in dinamiche spesso ambivalenti. Il feticista, infatti, si confronta con la necessità di integrare un oggetto caricato di senso personale in un contesto relazionale che richiede scambio, reciprocità e riconoscimento dell’altro.
Non sempre questa integrazione avviene in modo armonico. In alcuni casi, il feticcio diventa elemento di segretezza, di isolamento, oppure viene vissuto come incompatibile con l’immaginario erotico condiviso. In altri, invece, esso può essere accolto, esplorato o addirittura condiviso, divenendo parte dell’identità erotica di coppia. La differenza sta nella possibilità di narrazione, nella capacità del soggetto di raccontarsi e farsi conoscere nel proprio desiderio.
La coppia è il luogo in cui si giocano le tensioni tra visibile e invisibile, tra il sintomo e il legame, tra il bisogno di protezione e la vulnerabilità dell’aprirsi. Il feticismo può, in questo contesto, rappresentare una sfida relazionale, ma anche una risorsa trasformativa, se accolto senza giudizio e integrato nella dinamica affettiva come forma espressiva del sé.
Clinicamente, è importante accompagnare i pazienti nella decostruzione delle fantasie difensive di rifiuto o giudizio, lavorando sulle paure arcaiche legate alla rivelazione dell’oggetto. Solo quando il feticismo smette di essere un segreto da custodire, può diventare un simbolo da condividere, restituendo all’incontro di coppia un potenziale creativo e autentico.
Intimità e distanza: dinamiche relazionali del feticista
Nelle relazioni affettive, il feticista vive spesso una tensione sottile tra desiderio di intimità e timore della fusionalità. L’oggetto feticistico diventa, in questi casi, uno spazio intermedio che consente di mantenere una distanza regolata, proteggendo il soggetto dall’invasività dell’Altro. Non è raro che il feticista tema la perdita di sé nell’incontro, e utilizzi l’oggetto come barriera simbolica contro il rischio della dipendenza.
Il feticcio, allora, non separa solo dal partner, ma anche da vissuti interni difficili da mentalizzare: esperienze precoci di intrusività, fusioni traumatiche o mancanze affettive possono rendere l’intimità vissuta come pericolosa. In tale contesto, l’oggetto funge da mediatore tra il bisogno e il timore dell’Altro.
La dinamica relazionale si struttura quindi intorno a un equilibrio instabile, dove il piacere condiviso coesiste con il bisogno di controllo. Il feticista può oscillare tra il desiderio di essere visto e la paura di essere invaso, tra la disponibilità a coinvolgersi e la necessità di ritirarsi nell’autonomia dell’oggetto. Questo movimento ambivalente è spesso fonte di sofferenza, incomprensione o solitudine nella coppia.
Il lavoro terapeutico si orienta allora verso la possibilità di pensare l’intimità non come minaccia, ma come luogo di risonanza, dove il feticismo possa mantenere la sua funzione identitaria senza diventare scudo o prigione. Quando il partner viene riconosciuto come soggetto, e non come antagonista dell’oggetto, può nascere un nuovo spazio relazionale capace di integrare differenze, desiderio e narrazione.
Accettazione e negoziazione: quando il partner non è il feticcio
Quando il partner del feticista scopre di non essere l’oggetto del desiderio primario, può emergere un senso di esclusione, inadeguatezza o confusione. La dinamica feticistica viene allora vissuta come una terza presenza nella relazione, una sorta di “rivale silenzioso” che occupa lo spazio erotico e affettivo. Questo confronto mette alla prova le capacità di accoglienza, ascolto e negoziazione reciproca all’interno della coppia.
Tuttavia, l’oggetto feticistico non rappresenta necessariamente una minaccia all’Altro, quanto piuttosto una parte profonda del Sé che chiede di essere riconosciuta. L’errore clinico più comune consiste nell’imporre una scelta al feticista: o l’oggetto, o il partner. Una tale posizione, binaria e colpevolizzante, rischia di cronicizzare il conflitto e spezzare il legame simbolico che sostiene la soggettività.
La terapia di coppia o il sostegno individuale possono creare uno spazio terzo dove il feticismo possa essere raccontato, compreso e situato, anziché giudicato o rimosso. L’obiettivo non è “normalizzare” il desiderio, ma favorire una narrazione autentica, in cui il partner possa entrare senza sentirsi annullato. È nella possibilità di dialogare attorno all’oggetto che si aprono vie nuove di intimità e complicità.
In alcuni casi, il partner può anche scoprire un interesse erotico o simbolico per l’oggetto, ridefinendo così il perimetro della relazione sessuale. Ma anche quando ciò non avviene, resta fondamentale il riconoscimento reciproco delle differenze, come base per una relazione viva, plurale e non normata, dove il feticismo non è negato, ma integrato.
Quando il feticismo diventa disturbo
Il feticismo come forma del desiderio non coincide necessariamente con una condizione clinicamente rilevante. Tuttavia, quando l’oggetto feticistico diventa una necessità esclusiva per la gratificazione sessuale, o interferisce in modo significativo con il funzionamento personale, sociale o relazionale, può assumere le caratteristiche di un disturbo psicopatologico.
Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), il disturbo feticistico è classificato tra le parafilie, a condizione che provochi disagio clinicamente significativo o compromissione nelle aree fondamentali della vita. Non è dunque il contenuto del desiderio a essere patologico, ma la sua rigidità, compulsività e centralità esclusiva.
Il passaggio da esperienza soggettiva a sintomo clinico non è mai netto. Esiste una zona grigia in cui il feticismo diventa il solo canale espressivo della sessualità, escludendo ogni altra forma di intimità o relazione. Il soggetto può sperimentare vergogna, senso di inadeguatezza, isolamento o una dipendenza dall’oggetto che impedisce la libertà del legame.
La psicopatologia del feticismo non può essere ridotta a una etichetta: va compresa nel suo contesto evolutivo, relazionale e difensivo. Spesso, il disturbo si struttura su una base di traumi precoci, relazioni affettive carenti o fallimenti nel processo di simbolizzazione. L’oggetto feticistico diventa allora un rifugio, ma anche una gabbia, che imprigiona il desiderio in uno schema rigido e ripetitivo.
La clinica richiede dunque uno sguardo non giudicante, capace di distinguere tra una sessualità creativa e un sintomo che chiede di essere accolto, pensato e trasformato. Il lavoro terapeutico si apre a questa complessità, cercando le radici del conflitto piuttosto che rimuoverne l’espressione.
Disturbo feticistico secondo il DSM-5: criteri e differenze
Nel DSM-5, il disturbo feticistico è definito come un persistente e intenso interesse sessuale verso oggetti inanimati o parti non genitali del corpo, che dura almeno sei mesi, e che causa disagio clinicamente significativo o compromissione nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti della vita.
È fondamentale distinguere tra feticismo non patologico, vissuto come parte dell’espressione erotica individuale o di coppia, e il disturbo feticistico, dove l’oggetto diventa unico mezzo di eccitazione. In quest’ultimo caso, il comportamento è compulsivo, accompagnato da senso di colpa, difficoltà relazionali o isolamento.
Il manuale prevede una specificazione legata alla natura dell’oggetto: se si tratta di indumenti intimi, scarpe, materiali particolari, oppure di parti corporee come piedi o capelli. Tuttavia, il contenuto in sé non determina la patologia: ciò che conta è la perdita di flessibilità, libertà e pluralità del desiderio.
Clinicamente, la diagnosi deve essere prudente. Un uso del feticcio nella vita sessuale, anche frequente o ricorrente, non è sufficiente per parlare di disturbo. È il vissuto soggettivo del soggetto – angoscia, ritiro sociale, conflitti interni – a indicare la soglia tra una variazione della sessualità e una condizione che necessita di aiuto.
Lo sguardo psicodinamico va oltre il criterio descrittivo, indagando il senso dell’oggetto all’interno della storia personale. Il feticismo patologico è spesso una risposta al dolore psichico, un compromesso tra desiderio e difesa. Il sintomo, allora, parla un linguaggio simbolico che la clinica è chiamata a decifrare.
Conflitto intrapsichico, vergogna e ciclo del sintomo
Quando il feticismo si struttura come disturbo, emerge un conflitto profondo tra il desiderio e l’identità del soggetto. Da un lato, l’oggetto rappresenta una via privilegiata per l’eccitazione e il controllo dell’ansia; dall’altro, può suscitare vissuti di vergogna, inadeguatezza o rifiuto di sé. È in questo spazio lacerato che prende forma il ciclo del sintomo: eccitazione → colpa → negazione → ripetizione.
Il feticista patologico non sceglie il suo oggetto, ma lo subisce: è costretto a ricorrervi anche quando ne intuisce il potenziale auto-limitante. Questa coazione a ripetere, tipica della sintomatologia nevrotica, rivela una ambivalenza irrisolta tra piacere e angoscia. Il sintomo offre sollievo, ma anche dolore, tenendo il soggetto prigioniero di una dinamica che lo separa dalla relazione autentica.
Spesso, alla base del disturbo vi è una scissione difensiva: da una parte il sé erotico, legato al feticcio; dall’altra il sé relazionale, che vive il desiderio come colpa. Tale frattura può essere espressione di antiche ferite narcisistiche, di esperienze umilianti o di legami affettivi svalutanti.
Nel setting analitico, è essenziale riconoscere e contenere la vergogna, senza interpretazioni premature o direttive. Il feticista porta in terapia un sintomo che è anche rappresentazione di un legame perduto, di una ferita che si è trasformata in oggetto. Ascoltare il linguaggio di questo sintomo significa entrare in contatto con le sue radici profonde, e aprire lo spazio per una rielaborazione simbolica del desiderio.
Approccio terapeutico al feticismo
Affrontare il feticismo in terapia significa avvicinarsi a una complessa struttura del desiderio, in cui l’oggetto feticistico è molto più di un mezzo di gratificazione: è simbolo, rifugio, memoria incarnata di esperienze relazionali primarie. Il trattamento richiede uno sguardo clinico profondo, capace di distinguere tra espressione creativa del desiderio e strutturazione difensiva del sintomo.
Il terapeuta si trova spesso a incontrare nel feticista ambivalenze profonde: vergogna e attaccamento all’oggetto, bisogno di cambiamento e timore della perdita. In questo scenario, l’alleanza terapeutica è il primo spazio dove queste tensioni possono essere esplorate senza giudizio, con attenzione empatica e ascolto simbolico.
La postura analitica, in questo contesto, non può essere direttiva. Il lavoro terapeutico non mira a “togliere il feticcio”, ma a comprenderne il senso, la funzione e la storia. Attraverso il transfert e il linguaggio onirico, è possibile accedere al retroscena affettivo che l’oggetto incarna: frammenti di relazioni precoci, lutti non elaborati, angosce intollerabili.
Il feticismo non va interpretato come una devianza da correggere, ma come un modo del soggetto di organizzare il proprio mondo interno. Solo in un clima di contenimento, dove il sintomo può parlare senza essere invalidato, il paziente può iniziare a pensare il proprio desiderio, a ridefinirne le coordinate.
Il trattamento si muove allora in una doppia direzione: da un lato, contenere il sintomo nella sua urgenza clinica; dall’altro, esplorarne il potenziale narrativo, la sua natura di compromesso tra il bisogno d’amore e la paura della perdita.
Transfert, controtransfert e oggetto feticistico in seduta
Nel setting analitico, l’oggetto feticistico non è solo un contenuto portato dal paziente, ma un elemento che si riverbera nella relazione terapeutica attraverso dinamiche di transfert e controtransfert. Il terapeuta può trovarsi a essere investito di funzioni simili a quelle svolte dal feticcio: presenza rassicurante, oggetto idealizzato, contenitore stabile.
Il transfert del paziente feticista è spesso caratterizzato da movimenti oscillanti tra idealizzazione e diffidenza. La relazione analitica può essere vissuta come un campo ambivalente: desiderato e temuto, carico di aspettative, ma anche minaccioso per la possibilità di essere compresi troppo a fondo. L’oggetto feticistico, in questo quadro, protegge dal coinvolgimento affettivo pieno.
Il controtransfert può emergere sotto forma di sentimenti di esclusione, impotenza o fascinazione, specialmente quando il feticcio appare come qualcosa di impenetrabile, non simbolizzabile. Il terapeuta può sperimentare il senso di non essere “abbastanza” per il paziente, come se l’oggetto avesse una funzione insostituibile. Riconoscere queste reazioni è fondamentale per non agire il controtransfert, ma trasformarlo in strumento clinico.
Il lavoro sul transfert permette al paziente di esplorare, spesso per la prima volta, il legame profondo tra l’oggetto e le esperienze affettive originarie. Il terapeuta diventa il luogo simbolico in cui tale oggetto può essere rappresentato, narrato e trasformato. Solo così il feticismo perde la sua rigidità e può evolvere verso forme più integrate del desiderio.
Il setting analitico diviene quindi uno spazio di restituzione simbolica, dove l’oggetto feticistico non viene negato né ridicolizzato, ma accolto nella sua funzione profonda, e gradualmente pensato all’interno della storia del soggetto.
Tecniche di esplorazione e origine del sintomo: sogni, fantasie, associazioni
Per comprendere le radici del feticismo, è essenziale adottare tecniche terapeutiche capaci di accedere ai contenuti inconsci, là dove l’oggetto feticistico si è formato come risposta simbolica a un’esperienza psichica non verbalizzabile. In questo senso, sogni, fantasie e libere associazioni diventano strumenti privilegiati di indagine.
Nel sogno, l’oggetto può apparire in forme mascherate, dislocato, frammentato, ma sempre connesso a nuclei di significato profondi: assenza, mancanza, desiderio di fusione, angoscia di separazione. Interpretare questi simboli consente di restituire senso a ciò che inizialmente si presenta come bizzarro, eccentrico o deviante.
Le fantasie ricorrenti forniscono una mappa preziosa del mondo interno del paziente. L’oggetto feticistico può comparire come figura salvifica o minacciosa, come garante del piacere o testimone di un trauma rimosso. La loro esplorazione consente di trasformare il sintomo in narrazione, aprendo uno spazio simbolico dove il desiderio può evolvere.
Le libere associazioni, infine, sono la chiave per penetrare la logica inconscia che ha organizzato il sintomo. Attraverso esse, il terapeuta può cogliere connessioni inedite tra il presente e la storia infantile, tra l’oggetto concreto e l’oggetto psichico. L’analisi diventa così un atto creativo: non smascheramento, ma costruzione di significato.
Queste tecniche, se usate con sensibilità e apertura, permettono al paziente di uscire dalla prigione del sintomo per ritrovare la propria voce. Il feticcio, da oggetto ripetitivo e statico, può diventare porta d’accesso al rimosso, possibilità di reintegrazione e nuova narrazione di sé.
Teorie avanzate e relazioni oggettuali
Il feticismo può essere esplorato con maggiore profondità attraverso le teorie delle relazioni oggettuali, le quali forniscono chiavi di lettura raffinate per comprendere la funzione dell’oggetto feticistico nella struttura della psiche. In questo quadro teorico, il feticcio non è solo un sostituto fallico o un oggetto sessuale, ma una rappresentazione interna di relazioni affettive precoci.
Donald Winnicott, con il concetto di oggetto transizionale, ha aperto la via alla comprensione del feticismo come forma evolutiva – e talvolta regressiva – di gestione dell’angoscia di separazione. Il feticcio diventa allora un ponte tra realtà interna e realtà esterna, tra l’assenza della madre e la capacità di tollerare la sua non-presenza.
Melanie Klein, invece, ha letto il ricorso al feticcio come espressione di difese schizoparanoidi, in cui l’oggetto è scisso, idealizzato e investito di onnipotenza per proteggere il Sé da angosce primitive. In questo quadro, il feticismo può assumere una funzione difensiva rigida, ma anche trasformarsi nel tempo se contenuto nel setting terapeutico.
Wilfred Bion ha messo in luce la dimensione del contenimento e della capacità di pensare l’esperienza affettiva. In assenza di un contenitore psichico adeguato (una madre contenitiva o una funzione terapeutica di rêverie), il soggetto può affidarsi all’oggetto feticistico per bloccare l’emozione grezza che non riesce a essere mentalizzata.
Infine, John Bowlby – con la teoria dell’attaccamento – ci mostra come il feticismo possa emergere laddove il legame con la figura di attaccamento è stato instabile, imprevedibile o traumatico. Il feticcio diventa allora un “oggetto sicuro” costruito per compensare l’imprevedibilità del legame originario.
Queste prospettive, intrecciate nel lavoro clinico, offrono al terapeuta una mappa simbolico-affettiva per comprendere il feticismo non come deviazione, ma come narrazione incarnata di una storia relazionale.
Klein, Winnicott, Bion e Bowlby: prospettive cliniche sul feticismo
Il feticismo, da una prospettiva psicodinamica avanzata, può essere interpretato come un indice relazionale: un oggetto carico di transfert primario, che riflette modalità precoci di organizzare l’affettività. Le teorie di Klein, Winnicott, Bion e Bowlby non solo offrono strumenti di comprensione, ma permettono un accesso profondo al mondo interno del feticista.
Per Klein, l’oggetto feticistico è spesso il prodotto di un meccanismo di scissione: il soggetto fissa l’oggetto in una funzione idealizzata, rimuovendo la sua parte persecutoria. L’angoscia di annientamento viene allora evitata attraverso il controllo dell’oggetto, reso prevedibile e “sicuro”. La sessualità feticistica appare così rigidamente organizzata, immune all’ambiguità dell’altro.
Winnicott interpreta l’oggetto feticistico come un oggetto transizionale fallito o cristallizzato: il passaggio tra dipendenza e autonomia si blocca, e il feticcio assume la funzione di mediazione permanente, inibendo la possibilità di autentica relazione.
Nel pensiero di Bion, il feticismo può rappresentare una risposta alla mancanza di rêverie, ovvero all’assenza di uno spazio mentale capace di contenere, metabolizzare e restituire l’esperienza affettiva. L’oggetto feticistico allora “tappa” il buco psichico della mancanza di pensiero.
Infine, per Bowlby, il feticismo è un tentativo di stabilizzare l’attaccamento, quando la figura primaria è stata incoerente, traumatizzante o assente. Il soggetto cerca una sicurezza non più nella relazione, ma in un oggetto simbolico che non delude, non abbandona, non cambia.
Queste teorie, lette insieme, evidenziano una verità fondamentale: il feticismo non è solo una variante sessuale, ma un’espressione relazionale profonda, il cui trattamento richiede una clinica capace di ascolto simbolico, di contenimento e di restituzione narrativa.
Dal contenimento all’oggetto transizionale: ridefinire il legame con l’oggetto
Uno degli obiettivi centrali del lavoro terapeutico con il feticismo è trasformare il significato dell’oggetto feticistico: da elemento rigido e difensivo a oggetto pensabile, simbolizzabile e integrabile nella storia affettiva del paziente. Questo processo richiede un movimento clinico che va dal contenimento alla transizione.
Il contenimento – nel senso bioniano – è la capacità del terapeuta di accogliere l’emozione grezza, restituendola in forma simbolica. Il paziente feticista spesso non ha sperimentato questa funzione nella relazione primaria: l’oggetto, allora, ha preso il posto della madre contenitiva, sostituendola nel suo compito psichico.
Attraverso la relazione analitica, l’oggetto può gradualmente essere de-sessualizzato, de-potenziato, reintegrato. Non per essere eliminato, ma per essere “pensato” – cioè inscritto in una rete di significati più ampia, capace di includere desiderio, perdita, storia.
L’oggetto feticistico, se attraversato simbolicamente, può diventare oggetto transizionale nel senso winnicottiano: uno spazio di passaggio tra mondo interno e realtà condivisa, tra identificazione e differenziazione. Non più una barriera alla relazione, ma un mediatore di senso.
Questo processo richiede tempi lunghi, un setting stabile, e un terapeuta in grado di tollerare il non sapere, di non forzare il cambiamento, ma di accompagnare il paziente nella scoperta del proprio desiderio. La ridefinizione dell’oggetto coincide allora con la ridefinizione del Sé.
Non si tratta di abbandonare il feticismo, ma di trasformarne la funzione: da difesa rigida a ponte simbolico, da sintomo isolato a possibilità narrativa. Solo così l’oggetto smette di possedere il soggetto, e il soggetto può finalmente riscrivere la propria storia.
Verso un’integrazione del desiderio: comprendere il feticismo nella psicoterapia contemporanea
Il percorso di esplorazione del feticismo ci ha condotti in una geografia complessa e stratificata della psiche, in cui desiderio, oggetto e identità si intrecciano in forme talvolta enigmatiche, talvolta rivelatrici. Lontano da ogni etichetta patologizzante o da classificazioni rigide, il feticismo si configura come un linguaggio del corpo e dell’anima, un modo attraverso cui il soggetto cerca di articolare bisogni antichi, affetti profondi, paure senza nome.
La figura del feticista, così come emersa lungo l’articolo, è tutt’altro che monolitica: egli può essere il bambino che ha cristallizzato un oggetto per sopravvivere a una perdita, l’adolescente che cerca sicurezza in un rituale, l’adulto che sperimenta un’identità sessuale attraverso simboli tangibili. In tutti i casi, il feticista ci parla di un’assenza trasformata in presenza, di un dolore trasfigurato in oggetto, di un Sé che tenta di ricostruire una coerenza affettiva là dove è venuta meno.
Il feticismo, pertanto, non può essere compreso senza una lettura simbolica e relazionale, capace di collocare l’oggetto non solo sul piano del piacere, ma su quello della memoria e del legame. Esso non è una perversione, bensì un codice affettivo, un sintomo che custodisce una verità, un passaggio tra il trauma e la narrazione.
In psicoterapia, l’approccio al feticismo richiede empatia, pazienza e una solida capacità di ascolto simbolico. Il feticista non va “corretto”, ma accompagnato nella possibilità di pensare l’oggetto, di esplorarne la funzione, di re-iscriverlo nella propria storia relazionale. Non sempre l’obiettivo sarà eliminare il feticismo; spesso, sarà invece trasformarlo in una possibilità di integrazione, in un gesto che non difende più dal legame, ma lo prepara.
In ultima analisi, comprendere il feticismo significa riconoscere che l’essere umano costruisce significati anche attraverso ciò che apparentemente lo isola. E che anche l’oggetto più bizzarro, se accolto nella relazione terapeutica, può diventare ponte, simbolo, parola.
Chi è il feticista secondo la psicoterapia psicodinamica?
Il feticista è una persona che struttura il proprio desiderio intorno a un oggetto specifico, investito affettivamente e simbolicamente. Nella psicoterapia psicodinamica, il feticismo è inteso come espressione di dinamiche inconsce legate all’attaccamento, alla difesa contro l’angoscia di perdita o castrazione, e alla costruzione dell’identità. L’oggetto feticistico non è solo erotico, ma diventa un sostegno psichico profondo.
Il feticismo è considerato un disturbo mentale?
Secondo il DSM-5, il feticismo diventa un disturbo solo quando causa disagio clinicamente significativo o compromissione funzionale. Nella visione terapeutica contemporanea, non ogni feticista è portatore di patologia. Il feticismo può esprimere bisogni affettivi profondi, simbolizzare una difesa, o costituire una risorsa identitaria. Il criterio centrale è il grado di sofferenza soggettiva e la rigidità del rituale.
ome si affronta il feticismo in psicoterapia?
La psicoterapia psicodinamica affronta il feticismo esplorando le radici inconsce del desiderio, il significato affettivo dell’oggetto e il ruolo che questo svolge nell’identità del feticista. Attraverso transfert, sogni e narrazione, il paziente può comprendere come l’oggetto feticistico sia parte di una storia relazionale, non un sintomo da eliminare, ma una via d’accesso al Sé e al desiderio autentico.
Approfondimenti
- “Esiste il rapporto sessuale? Desiderio, amore e godimento” di Massimo Recalcati. Recalcati, uno dei più noti psicoanalisti italiani contemporanei, offre una rilettura del feticismo alla luce della psicoanalisi lacaniana. Il libro esplora come il feticismo rappresenti una modalità di difesa contro l’angoscia e il desiderio, fornendo un’analisi ricca di spunti clinici.
- “Parafilie e devianza” Fabrizio Quattrini. Esplora le parafilie e i comportamenti devianti, analizzandoli da una prospettiva psicologica e clinica. Il libro offre un’analisi delle radici psicologiche e delle manifestazioni delle parafilie, fornendo strumenti pratici per il loro trattamento in ambito terapeutico. Ideale per professionisti della salute mentale e studiosi della sessualità umana.
- “Ossessione, paranoia, perversione” di Sigmund Freud: è una raccolta di saggi in cui il padre della psicoanalisi esplora i meccanismi psichici alla base dell’ossessione, della paranoia e delle perversioni. Il testo offre un’analisi profonda di queste condizioni, rivelando come conflitti inconsci e traumi infantili influenzino il comportamento patologico.
- “La pervesione sadomasochistica L’oggetto e le teorie” di Franco De Masi. analizza il sadomasochismo da una prospettiva psicoanalitica, esplorando le dinamiche psichiche sottostanti e il ruolo dell’oggetto nella relazione perversa. Il libro offre un approfondimento teorico e clinico su come queste dinamiche si sviluppano e si manifestano nel comportamento umano.